Di Alessandro Terziani
Spalanco improvvisamente gli occhi. Nel buio cerco a tentoni il cellulare. Sono solamente le 5,50 del mattino nella mia stanza di 4 mq sulla 44th Street a pochi passi dalla 9th Avenue, quartiere di Hell’s Kitchen a cinque minuti da Times Square. Venerdì 11 settembre, ricorrenza tragica per i cittadini di Manhattan che oggi celebrano il Patriot Day in ricordo dell’attacco terroristico di quattordici anni fa, ma giornata storica per il tennis italiano, con Flavia Pennetta e Roberta Vinci impegnate nelle semifinali degli Us Open. Dopo il rinvio per la pioggia del giorno precedente, l’attesa è diventata spasmodica. L’adrenalina già alle stelle, neanche dovessi andare io in campo. Decido di andare a prendere la prima navetta, quella delle 7,30 sulla Lexington Avenue, che trasporta gli addetti ai lavori direttamente al Billie Jean King USTA Center di Flushing Meadows, la casa degli Us Open.
Alle 8,30 l’immensa sala stampa nella pancia dell’Arthur Ashe, da quest’anno dedicata al grande giornalista Bud Collins, è ancora deserta. La prima semifinale, Pennetta-Halep, è infatti in programma alle 11. Mi informo su quando e dove le nostre due ragazze effettueranno il riscaldamento. Un caffè all’americana (quanta nostalgia di un buon espresso) e verso le 9,30 mi dirigo verso i campi di allenamento. Sul court P1, il più lontano dall’Arthur Ashe, si sta già allenando Flavia. Dall’altra parte della rete il suo coach Salvador Navarro. L’atmosfera è apparentemente rilassata. I due sorridono sereni e si scambiano battute. Uno degli altri due colleghi presenti commenta scettico il fatto che la Pennetta si stia preparando al match con la Halep scambiando con un mancino che tira il rovescio a una mano. Obietto che trattasi soprattutto di un riscaldamento muscolare e non tattico. Dopo un quarto d’ora arriva anche Roberta con il fido Francesco Cinà. I due si fermano sul P3 e la Vinci saluta la corregionale con un cenno della mano. La tarantina è molto concentrata e sembra decisamente più tesa della Pennetta. La brindisina abbandona il campo e uscendo si scambia i tradizionali “in bocca al lupo” con Roberta. Sul P1, lasciato libero da Flavia, arriva lo sparring di Serena Williams che inizia a riscaldarsi. Finalmente arriva la Numero Uno accompagnata come sempre dal suo coach Mouratoglou e da una pletora di persone. La segue anche un cameramen che non smette un secondo di riprenderla; sta effettuando le riprese per un film documentario sulla conquista del Grand Slam da parte di Serena. La Williams, per raggiungere il P1, è obbligata a passare dal P3 e quindi un metro dietro alla Vinci. Le due si ignorano completamente. Il loro match è di fatto iniziato. Dopo un paio di scambi lo sparring inizia a tirarle dei rovesci in back, probabilmente istruito nell’imitare il più possibile i colpi della Vinci. Serena si infuria e grida “Hit the ball!” al povero sparring. Come dire: “Chissenefrega di come gioca l’avversaria, sono io la più forte”.
Rientro, manca mezz’ora all’inizio della prima semifinale. Arriva Chris, il responsabile della sala stampa, con i biglietti per la dozzina di giornalisti italiani presenti. Ai media della nazionalità dei giocatori in campo sono infatti riservati i posti migliori nella prima fila a bordo campo o una decina di file più indietro. Opto per uno dei posti più in alto da dove si vede meglio la partita. Siamo tutti convinti che la Pennetta vista con Stosur e Kvitova possa farcela con la Halep, anche se sarà durissima. Flavia stupisce tutti e in solo un’ora travolge la rumena giocando una partita perfetta, la migliore della sua carriera. Il nostro pensiero va subito all’indomani. Che giornata, Serena festeggerà lo storico Grand Slam in finale proprio contro un’azzurra.
Scendiamo raggianti in sala stampa per scrivere il pezzo per il sito. Nel frattempo Robertina e Serena fanno il loro ingresso in campo. Si eleva improvvisa una generale esclamazione di sorpresa. Alzo gli occhi al monitor, la Vinci ha strappato il servizio alla Williams e si è portata avanti 2-1. Quasi un reato di lesa maestà. Serena recupera immediatamente il break e sommerge di vincenti la povera Robertina. Intanto viene annunciata in conferenza stampa la Pennetta. La sala è piena, numerosi giornalisti stranieri. Un giovane collega inesperto sta per applaudire l’ingresso di Flavia. Viene subito bloccato: “Porta male, tradizione vuole che l’applauso venga riservato solo al vincitore del torneo”. Occhieggiamo da un monitor in sala che Serena sta travolgendo la Vinci, 6-2 2-1 già avanti di un break nel secondo set. Un collega chiede alla Pennetta come pensa di affrontare Serena l’indomani. La brindisina respinge con decisione la domanda al mittente: “Non è finita, può ancora succedere di tutto”. Risposta apparsa a tutti più diplomatica che sincera. Con altri tre colleghi torniamo velocemente ai nostri posti nell’Arthur Ashe. Gli altri, visto l’andamento a senso unico della semifinale, preferiscono restare a scrivere in sala stampa seguendo la partita dal monitor. Grazie anche agli errori della Williams, Robertina è nel frattempo rientrata nel match. La talentuosa tarantina vince addirittura il secondo set tra lo stupore generale. Nessuno, neppure noi, si fa troppe illusioni. Altre volte Serena ha avuto dei passaggi a vuoto per poi riprendersi e portare a casa la partita con autorità. Vibra il cellulare, è un messaggio su WhatsApp di mia figlia incollata davanti alla televisione. “Babbo, se la Vinci vince mi coloro i capelli”. Rispondo tranquillo: “E io mi faccio il piercing”. Come prevedibile, la Williams riaccende il turbo e si porta sul 2-0 e ha la palla del 3-0, quasi una pietra tombale sul match. Quello che succederà da qui in avanti ha dell’irrazionale, un turbinio di situazioni ed emozioni che ancora faccio fatica a spiegarmi e a ricordare con lucidità. Robertina rimonta e sul 3-3 vince lo scambio più bello della partita. L’azzurra platealmente reclama l’applauso del pubblico americano: “Applaudite anche me, cazzo!”. Sinceramente da bordo campo non vedo il labiale e mi sfugge l’ultima parolina che mia figlia mi riferisce prontamente con un messaggio. I 22.500 dell’Arthur Ashe le tributano una standing ovation di oltre un minuto. Brividi. E’ il momento che cambia veramente le sorti della partita. Il pubblico inizia a tifare per l’underdog, noi e soprattutto la Vinci iniziamo veramente a crederci, Serena è infuriata e lancia urla belluine. Robertina serve per il miracolo sul 5-4. Il braccio non trema e va sul 40-0. Tratteniamo tutti il fiato su quell’ultima infida palla che la Vinci addomestica con una carezza di diritto. E’ fatta, è accaduto l’inimmaginabile. Senza accorgercene ci ritroviamo piangenti e urlanti a bordo campo. L’aplomb del giornalista ha lasciato posto all’orgoglio del tifoso italiano. Robertina si sottopone in totale confusione all’intervista di rito sul campo. Sembra un personaggio dei fumetti, con quegli occhioni grandi che luccicano e l’irrefrenabile gesticolare delle braccia. La Vinci comprende una parola sì e due no. Risponde con un inglese all’Alberto Sordi in un “Americano a Roma” che fa innamorare definitivamente il pubblico yankee. Io e altri due colleghi la chiamiamo a gran voce. Robertina ci vede, ci corre incontro e ci abbraccia a lungo. Il suo sudore sulla nostra pelle d’oca. Le gridiamo: “Robi, ma che hai combinato?”. “Non lo so, non lo so”, ci risponde con le lacrime di gioia che le irrorano le guance scavate.
Roberta Vinci abbraccia i giornalisti italiani presenti a bordo campo
La conferenza stampa è un vero spettacolo, con l’azzurra che risponde con grande simpatia, in un mix di inglese e italiano, al fuoco incrociato dei tanti giornalisti presenti. La Vinci, dopo l’ultima question in inglese si lascia andare a un “E andiamo… è stato più impegnativo rispondere a tutte queste domande che battere Serena”. Fragorosa risata generale. Ritrovo in tasca il biglietto di quell’indimenticabile giornata. Mi viene istintivo scriverci nel retro “11 settembre 2015, io c’ero”. Al termine lo porgo a Robertina che esclama divertita: “Grande!” e vi appone la firma. To the ages (ai posteri), come dicono da queste parti.
L’autografo di Roberta Vinci
Sono solo le 17,30 ma sembra trascorsa un’eternità dall’inizio della giornata. Mi sento come appena uscito da una centrifuga. Tanta stanchezza ma un senso di appagamento diffuso. Sono intanto scesi in campo Djokovic e Cilic, tra un paio d’ore sarà la volta di Federer e Wawrinka. Le semifinali maschili, che in un altro contesto sarebbero state l’appuntamento del giorno, passano in secondo piano. I due incontri scorrono via veloci senza pathos. Alle 23 riprendo la navetta che mi riporterà a casa. Nella skyline di Manhattan risaltano due altissimi fasci di luce blu laddove sorgevano quattordici anni fa le Torri Gemelle. E’ spontaneo il ricordo di quell’immane tragedia che ha mietuto 3.000 vittime innocenti e sconvolto per sempre il mondo occidentale. A mezzanotte sono finalmente nella mia stanza newyorkese. Domani, due italiane in finale, sarà una grandissima festa. Sto per addormentarmi ma all’improvviso mi assale un atroce dubbio: “Ma il piercing, dove me lo faccio?”
La simpatica email inviata da Roberta Vinci all’autore del racconto