Di Alessandro Terziani
Melbourne, Australian Open. La prima giornata di uno Slam è sempre la più massacrante. Tanti italiani in gara, molti match da seguire anche contemporaneamente. Dalla mia postazione nell’ipertecnologica sala stampa, posizionata nella pancia della Rod Laver Arena, pubblico sul sito della rivista il pezzo sulla sessione giornaliera. Sono le 17,53 di un afoso pomeriggio australiano. Le 7,53 in Italia. La giusta ora per far giungere all’appassionato, insieme a brioche e cappuccino, le ultime notizie dall’altro emisfero. Ho titolato il mio pezzo: “E’ azzurro il cielo di Melbourne”. Davvero poco originale, ma tant’è.
Ben sette erano gli azzurri in programma e, evento quasi storico, hanno tutti vinto. Tranne uno. Dal monitor vedo che Gilberto Bradi è ancora in campo. Numero 285 nelle classifiche mondiali, Bradi è alla sua prima apparizione nel tabellone principale di uno Slam. In realtà si era fermato al terzo e decisivo turno delle qualificazioni, ma il forfait dell’ultima ora di uno dei giocatori già inseriti nel tabellone principale lo aveva ripescato tra gli eletti. La sigla LL precede adesso il suo nome. Lucky Loser, perdente fortunato. L’italiano dopo aver vinto i primi due set, avvezzo da giorni alla lenta e incandescente superficie gommosa, ha subito il ritorno dell’avversario, il kazako Kozlov n. 86 ATP. Adesso, dopo 3 ore e 42 minuti di gioco, è sotto di un break nel quinto set. 3-1 per l’avversario, servizio Bradi.
L’incontro è sul court 22, uno dei campi secondari meno nobili che viene utilizzato solo per sfoltire i numerosi incontri di primo turno. Non ho mai visto giocare Bradi dal vivo. La curiosità, e soprattutto tanta passione, mi spinge a lasciare l’aria condizionata della sala stampa per espormi nuovamente all’impietoso sole australiano. Cappellino, crema solare, bottiglietta d’acqua, l’immancabile taccuino e m’incammino lentamente verso il court 22. Il campo è a una delle estremità di Melbourne Park, proprio accanto all’Hisense Arena, il secondo stadio degli Australian Open. Solo una tribunetta, dal lato opposto al giudice di sedia, composta da due file di seggiolini. Conto undici (sic) spettatori diversamente interessati. Tre ragazzini, neppur minimamente coinvolti dal match, con l’immancabile grande palla gialla già densa di autografi di giocatori più o meno conosciuti. Una coppia di quarantenni, dal complessivo peso di oltre due quintali, intenti a fagocitare improbabili sandwich grondanti salse di vario colore. Quattro ragazzi croati, a torso nudo con occhiali da sole e bandana a scacchi biancorossi, che le numerose birre hanno portato misteriosamente a sostenere in modo rumoroso il giocatore kazako. Un signore giapponese – cappellino, camicia e short completamente bianchi – impegnato a scattare foto a raffica. Da ultimo, un corpulento signore dai capelli lunghi e unti stretto in una tuta celeste, chiaramente il coach del kazako. Mi siedo a distanza di sicurezza tra la coppia di obesi e il fotografo del sol levante. Siamo al cambio di campo. 4-3 per Kozlov che si appresta al servizio.
Ho tenuto a fatica il servizio e sono ancora attaccato alla partita. Mi accascio sulla sedia e mi copro la testa con l’asciugamano. Un telo di spugna mi isola dal mondo. Sono stremato, le forze stanno venendo meno. Dovrei pensare al prossimo gioco, concentrarmi sulla partita. Ma il pensiero vola in Italia, alla mia ragazza, ai genitori, agli amici. Ancora 2-3 giochi e già domani potrei prendere il volo per Roma, via Dubai. Più che una sconfitta, una liberazione. Sono rimasto solo, i miei due compagni di avventura hanno perso nelle qualificazioni e sono già tornati in Italia. Con la mia classifica solo grazie al sostegno dei miei pazienti genitori ed al contributo di uno sponsor locale riesco a mantenermi nel circuito professionistico. Solo i top 100, e neppure tutti, possono permettersi il lusso di viaggiare con l’allenatore o addirittura il preparatore atletico e il fisioterapista. Senza menzionare i campioni che mantengono entourage di una dozzina di collaboratori.
“Time!” L’arbitro mi riporta bruscamente alla realtà. Un sorso di integratori e uno di acqua e faccio il mio rientro in campo. Il mio avversario non cede il servizio dal secondo set e da allora non mi ha concesso neppure una palla break. Mi posiziono per la risposta piuttosto sfiduciato. Servizio potente e centrale che riesco appena a sfiorare. 15-0. Stavolta il servizio è molto carico sul mio rovescio. La mia risposta è centrale e piuttosto corta. Il kazako chiude facilmente con il diritto. 30-0. Ancora una prima violenta all’incrocio centrale delle righe. Ace, 40-0. “C’mon!” Kozlov mi mostra il pugno. E’ in fiducia. Sotto di due set, contro un giocatore che lo segue in classifica di quasi cento posizioni, ha visto le porte dell’Inferno. Adesso vola sulle ali dello scampato pericolo. Il gioco è ormai compromesso. Mi posiziono quasi un metro più avanti deciso a rischiare il tutto per tutto. Il kazako tenta l’ace centrale. “Out!” urla il giudice di linea. Avanzo ancora nel campo. La seconda di servizio in kick viene anticipata dal mio rovescio bimane che indovina uno stupendo vincente lungolinea. 40-15.
“Grande Gilbe, non mollare!” L’incitamento nella lingua amica mi fa voltare verso la tribunetta semideserta. Scorgo un signore brizzolato di cui finora non avevo percepito la presenza. Cappellino bianco con il logo di Wimbledon, t-shirt azzurra con la scritta “Fair Play” ben visibile. Al collo l’accredito verde riservato ai media. L’inaspettato fan è una scarica di adrenalina che mi risveglia da quel torpore agonistico da cui mi ero lasciato avvolgere. Attendo saltellando il successivo servizio. Riesco a rispondere in profondità. Inizia un lungo scambio sulla diagonale di rovescio. Dopo una ventina di colpi violenti, il nastro intercetta il mio rovescio, la pallina si impenna e accorcia fatalmente la traiettoria. Per il mio rivale un gioco da ragazzi aggirarla e chiudere lo scambio con un diritto a sventaglio. “Game Kozlov! Kozlov leads 5 games to 3 in the final set!” Un solo gioco mi separa dalla sconfitta. Ma adesso mi sento nuovamente vivo, voglio vincere per me, la mia famiglia e per il mio unico tifoso. I cori scalmanati di quei quattro deficienti ubriachi neppure mi sfiorano. “Silence, please!”
Mi faccio consegnare quattro palline dal raccattapalle. Scelgo le due che sembrano più nuove e mi appresto a servire per restare nel match. Due ace e due servizi vincenti mi portano agevolmente sul 4-5. “Dai Gilbe, forza Gilbe!” L’incitamento del giornalista italiano è sempre più convinto. Al cambio campo mi siedo e alzo lo sguardo al cielo azzurro di Melbourne. Un gabbiano sta disegnando armoniose curve. Improvvisamente plana sul campo e si ferma a 3-4 metri di fronte a me. Mi fissa per un istante, sbatte le ali e riprende il volo. Il pensiero corre a mia nonna materna. E’ scomparsa neppure un anno fa. I miei genitori erano sempre occupati con il lavoro. Mi ha praticamente cresciuto. E’ stata la prima grande perdita della mia vita. La sento sempre con me, soprattutto nei momenti difficili. Negli occhi del gabbiano ho rivisto quelli dolci di mia nonna. Rientro in campo con una grande forza interiore. Il kazako vede avvicinarsi il traguardo e gioca con grande impeto. Gli scambi diventano sempre più intensi e spettacolari. Si giunge sul 40-40. La palla colpita da un innocuo rovescio di Kozlov muore sul nastro e cade imprendibile nel mio campo. Un pollice verso del destino. Match point per il kazako. Guardo sconsolato verso il mio tifoso. “Andiamo Gilbe, ce la puoi fare!”
Kozlov si appresta a servire per chiudere l’incontro. Ne vedo nitidamente l’espressione insicura. La pallina improvvisamente diventa più pesante, i movimenti del corpo meno fluidi. Il primo servizio è abbondantemente lungo, il secondo è in rete. Doppio fallo, parità. Kozlov mette nuovamente in rete la prima palla di servizio. Sulla seconda tremula trovo il coraggio di attaccare sul suo rovescio. Il passante del kazako è facile preda della mia voleè di diritto. Palla break. “Dai Gilbe, andiamo!” Il successivo scambio è serrato. Su una palla più corta del kazako esplodo un diritto incrociato irraggiungibile. “Siiiii!” Esulto all’unisono assieme al mio fan. 5-5.
La partita ha cambiato ormai direzione. Kozlov è un fantasma che caracolla sul campo. Nella sua retina è ancora impresso quel disgraziato match point. Il kazako conquista solo un 15 nel mio successivo turno di battuta. 6-5 a mio favore. Il cambio di campo mi sembra interminabile. Non vedo l’ora di riprendere il gioco. Mi porto velocemente sul 15-40. Ho due match point a disposizione. A Kozlov non entra più la prima di servizio. Sulla seconda rispondo sicuro e profondo con il rovescio. Inizia nuovamente lo scambio sulla diagonale di rovescio. Al terzo palleggio, su una palla più blanda, stacco la seconda mano, blocco il polso ed improvviso una perfetta smorzata. “Game, set, match, Bradi” Ho vinto! Non ho la forza neppure di esultare. Abbraccio a rete il mio leale avversario, bianco come un cencio.
Che vittoria, che carattere questo ragazzo. Non mi capita spesso di lasciarmi coinvolgere dalle sorti di un match. Dopo averne visti migliaia, si è come anestetizzati emotivamente. Mi alzo e mi appresto a riguadagnare la strada verso la sala stampa. Scorgo Bradi che rilascia pazientemente autografi ai tre ragazzini. Mi allontano dal court 22. Dopo pochi metri, mentre sto pensando a come titolare il pezzo sull’azzurro, mi sento toccare una spalla. Mi giro e il viso radioso del giocatore si apre in un grande sorriso.
“Grazie, grazie davvero”