Althea Gibson: la sua lotta per vincere nel Tennis e nella vita

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di Valerio Falcioni

Il tennis femminile contemporaneo è stato segnato da Serena Williams, dominatrice incontestata, da tutti ritenuta una delle più vincenti di sempre. Se andiamo indietro nel tempo, fine anni’60 e inizio degli anni ’70, troviamo un altro campione afroamericano, Arthur Ashe, capace di vincere tre tornei del grande slam. La prima tennista afroamericana ad aver vinto un grande slam però è Althea Gibson, la cui storia merita senz’altro di esser raccontata.

Althea era nata nella contea di Clarendon. Clarendon era sorta nel 1785 dopo la rivoluzione americana, quando fu deciso che il distretto di Camden dovesse esser diviso in sette contee.

La contea è famosa per i suoi canali e le sue piantagioni, dove erano impiegati a lavorare gli afroamericani, che costituivano la maggior parte della popolazione durante la guerra civile americana. La segregazione razziale era all’ordine del giorno, gli afroamericani dovranno aspettare una sentenza della Suprema Corte nel 1954, per veder sancita l’incostituzionalità della differenza di trattamento tra bianchi e persone di colore nelle scuole pubbliche. La famiglia di Althea si trasferì a New York, nel quartiere di Harlem. La sua infanzia non fu molto felice: il padre la picchiava spesso, del resto era un grande appassionato di boxe.

Althea sognava il proprio riscatto, si dava da fare per mantenersi, non disdegnava lavori umili, come scuoiare gli animali, fare l’operaia oppure la cassiera. La gente quando passava, non si accorgeva nemmeno di lei, era una delle tante emarginate della società. La ragazza seguiva spesso gli incontri di boxe di un certo Sugar Ray Robinson, di cui aveva conosciuto la moglie. Althea anche sognava la gloria come Sugar Ray, ma la boxe non era uno sport per donne. Il suo sport preferito era il tennis, giocava per la strada con la sua racchetta di legno. Un giorno destò l’attenzione del direttore dell’orchestra di Harlem, che restò basito dal modo in cui la ragazza colpiva la palla e dalla sua agilità nei movimenti: si sarebbe trovata a proprio agio in un campo da tennis.

Il tennis era uno sport elitario e soprattutto Althea non aveva i mezzi economici per mantenersi da sola, così due medici facoltosi di colore decisero di prenderla sotto la propria protezione. Si sa a volte lo sport è un mezzo di riscatto, un modo per uscire da situazioni difficili e per ritrovare la gioia di vivere. La ragazza afroamericana, a differenza delle sue colleghe bianche, non era aggraziata nei movimenti, ma dopo i campionati federali, riuscì a partecipare a tornei prestigiosi, come lo slam casalingo, gli Us Open. Per la prima volta una giocatrice di colore si cambiava negli spogliatoi femminili. Come tutti i grandi campioni, c’erano momenti di crisi, di certo non si reputava una predestinata a vincere uno slam, ma un tassista e la sua padrona di casa la convinsero a non mollare, il suo momento sarebbe arrivato.

Nel 1956 la favorita del Roland Garros era la britannica Angela Mortimer, vincitrice dell’edizione precedente. Il suo stile era diverso da quello di Althea, si muoveva con grazia, i suoi colpi non erano forti, ma precisi. Il cammino di Althea, che non si sarebbe mai sognata di arrivare in finale, fu eccezionale: perse un solo set in tutto il torneo contro la Buxton in semifinale. Tutti credevano nella vittoria della Mortimer. Sidney Llewelyn, il coach di Althea, sapeva che l’occasione che avevano aspettato per tanti anni, era finalmente arrivata, ora bisognava solamente giocare. La finale iniziò al meglio per la Gibson, che sorprese la Mortimer nel primo set, infilandole un 6-0. La giocatrice britannica non era abituata a una tale potenza, Althea picchiava fortissimo la palla, in ogni colpo sfogava tutta la sua rabbia e il suo rancore per tutte le sofferenze che aveva patito durante la sua infanzia, i suoi dritti erano veri e propri fendenti, sembrava che stesse dentro a un campo di boxe piuttosto che nel campo da tennis.

Nel secondo set la Mortimer decise che era l’ora di rientrare nel match, le due avversarie non risparmiarono né fiato né le proprie energie, era diventata una gara di resistenza.  La Gibson sapeva che avrebbe dovuto vincere il secondo set a tutti i costi, andare al terzo avrebbe significato regalare un’iniezione di fiducia all’avversaria. Alla fine la Mortimer cedette, subì il break decisivo che regalò il trionfo ad Althea: 12-10. La gloria del successo non solo trovò esultanza nel suo cuore, ma anche in tutti i cuori della gente che si era identificata in lei, il suo riscatto era il simbolo di una lotta contro un intero sistema. Ma Althea non si sarebbe accontentata solo di quel titolo, voleva di più. L’anno seguente sconfisse Darlene Hard a Wimbledon, il tempio del tennis. Capitava che ad Harlem, qualcuno passasse in uno di quei luoghi dove aveva lavorato e chiedesse che fine avesse fatto la cassiera di colore: i proprietari rispondevano che aveva appena vinto Wimbledon. Ora Althea non era più invisibile, tutti sapevano chi era e cosa aveva fatto.

La vittoria più bella forse è stata quella di pochi mesi più tardi contro Louise Brough(vincitrice di 6 slam). La partita finì 6-3 6-2, non ci fu storia. Il suo non era solo un gioco, ma lo specchio della dura lotta che aveva sostenuto in tutta la sua giovane vita: rabbia, forza e resistenza. Ora l’America intera conosceva il suo nome e la sua storia, quella di una ragazza di colore che si era ribellata: anche il nome di una ragazza “insignificante” era divenuto altisonante, proprio come gli oggetti di uso quotidiano in una società consumistica con Andy Warhol acquistano la consacrazione di un’opera d’arte. Althea difese magistralmente i suoi titoli, riconfermandosi campionessa nel 1958 sia agli Us Open che a Wimbledon. La sua popolarità crebbe a dismisura, tanto che John Ford la volle come attrice nella sua pellicola “Soldati a cavallo”, ambientato durante la guerra di secessione. Dopo il suo ritiro i riconoscimenti non mancarono: nel 1971 il suo nome fu introdotto nell’International Tennis Hall of Fame, la dimora delle leggende del tennis, mentre nel 1991 ricevette il premio Theodore Roosevelt. Il suo successo non è stata solo un’impresa sportiva, ma un invito al mondo a riflettere su come la tecnica e la tenuta fisica non siano sufficienti, se non accompagnate dalla determinazione e dalla capacità di scavalcare gli ostacoli che la vita ci pone.