Di Daniele Rossi
PRIMA PARTE
Siamo nel 2001. Il tennis maschile sta cominciando ad entrare in crisi. La stella di Sampras si sta lentamente spegnendo e all’orizzonte non si vede ancora chi possa sostituirlo. A scalpitare nelle prime posizioni sono in tanti: c’è Guga Kuerten, che nonostante i netti miglioramenti sul veloce rimane uno specialista della terra; c’è Andre Agassi, che sta attraversando una seconda giovinezza; c’è Marat Safin, l’annunciato campione degli anni a venire che però sembra prestare troppe attenzioni a quello che c’è di bello fuori dal campo; ci sono gli emergenti Hewitt e Ferrero e c’è ancora Pat Rafter, che però si sta avvicinando al tramonto della carriera. Sono in tanti a sgomitare, non c’è nessuno a prevalere e la qualità sta chiaramente scemando. A peggiorare la situazione c’è il confronto con il tennis femminile, che sta vivendo la sua epoca d’oro, grazie alla presenza contemporanea di campionesse di razza purissima quali Hingis, Davenport, Seles, Martinez, Pierce, Capriati, le sorelle Williams e la prima ondata russa capeggiata da Anna Kournikova e Elena Dementieva.
Gli Australian Open maschili sono andati in tasca ad Andre Agassi, in uno scenario abbastanza desolante e dopo una orribile finale a senso unico contro Arnaud Clement. Andre si è preso pure Indian Wells e Miami, mentre la stagione sulla terra ha incoronato Kuerten. Il brasiliano ha vinto a Monte-Carlo, si è arreso a Ferrero in quel di Roma, ma ha trionfato per la terza volta al Roland Garros, battendo Corretja. Un’altra finale sottotono, surclassata da quella femminile finita 12-10 al terzo per la risorta Jennifer Capriati su una giovanissima Kim Clijsters.
Wimbledon si preannuncia dunque molto incerto. Forse, per la prima volta dal 1993, Pete Sampras non parte favorito. La finale a Indian Wells è stato il suo miglior risultato, per il resto è palese che Pete ha perso la verve di un tempo. Ciononostante, l’AELTC gli assegna la testa di serie numero 1 – anche se per la classifica ATP sarebbe il numero 5 – forte dei 7 titoli conquistati a Church Road, di cui gli ultimi 4 consecutivi. Ma se non Sampras, allora chi? Agassi che è in forma strepitosa e ha fatto finale due anni fa? Safin, vincitore degli ultimi US Open? Oppure il rampante Hewitt, australiano atipico dal gioco da fondo, ma adattissimo all’erba? O sarà la volta buona per Rafter, finalista nel 2000 o per Gentleman Tim Henman, all’ennesimo assalto a quel titolo che gli inglesi anelano dal 1936?
Tra la rosa dei papabili vincitori, Goran Ivanisevic non c’è. Per forza, non dovrebbe neanche giocarlo Wimbledon. Ha iniziato il 2001 da numero 132 del mondo, dopo aver giocato appena 13 partite (perdendone 6) nel 2000. Ha 29 anni, una spalla sinistra a pezzi che deve tenere a bada con le infiltrazioni e un trauma – la terza sconfitta in finale ai Championships nel 1998 ad opera di Sampras – che sembra ancora insuperato. Goran ha iniziato l’anno perdendo da Julien Boutter a Doha, ma è arrivato in finale al Challenger di Heilbron perdendo da Michael Llodra. A Milano, dove ha vinto per due anni consecutivi (’96-’97), ha perso nei quarti di finale con un ragazzo molto talentuoso, ma dal carattere esplosivo, che poi vincerà il torneo in finale proprio contro Boutter. Si chiama Roger Federer.
Per Goran continuano i risultati modesti a Marsiglia, Memphis, San Jose, Indian Wells e Miami, ma almeno comincia a raggranellare qualche punto. Sulla terra non combina niente e a Parigi neanche ci va. E’ numero 125 del mondo, non ha la classifica per entrare in tabellone. Ma quindi, se non ha la classifica per giocare il Roland Garros, non ce l’ha neanche per Wimbledon? No, non ce l’ha. Dovrebbe passare attraverso l’inferno delle qualificazioni di Aorangi Park, tra giovani affamati, journeyman e vecchi in declino come lui. Ci sarebbe un modo per entrare in tabellone senza affrontare questa tortura. Ma non dipende da Goran. Dipende dall’All England Lawn Tennis Club. Bisogna vedere a chi decidono di dare gli otto inviti, quegli ultimi posti, quelle otto ‘carte selvagge’.
Gli organizzatori sono costretti – come da prassi, volenti o nolenti – a regalare un bel po’ di wild card alle presunte giovani promesse britanniche: Barry Cowan (che al 2° turno porterà Sampras al 5° set), Mark Hilton, Martin Lee, Arvid Parmar, Lee Childs e James Delgado. Ne mancano due. Una se la prende il danese Kristian Pless, che da junior ha fatto sfracelli e sembra essere in rampa di lancio per diventare il campione del futuro. E l’altra? Nelle stanze dell’AELTC si guardano attorno e hanno un’illuminazione. Non pensano al futuro, pensano al passato. No, basta sedicenti promesse. L’ultimo invito lo diamo a chi qui ci ha giocato perché se lo è meritato sul campo. E che per giunta qui ha giocato tre finali. L’ultima wild card la diamo a Goran Ivanisevic. E’ un ‘dead man walking’, non vince un torneo dal 1998, ha una spalla distrutta, ma a quell’uomo non si può non volere bene. Anche se perde al primo turno, farà una delle battute delle sue e ci farà fare quattro risate.
Goran, alla notizia fa i salti di gioia, rimanda l’operazione alla spalla, continua con le infiltrazioni e si butta sull’erba. Al Queen’s però è un disastro. Perde al primo turno contro Cristiano Caratti, Caratti-Kid, che all’epoca aveva già 31 anni ed era numero 194 del mondo. A s’-Hertogenbosch va un pochino meglio: batte “The beast”, Max Mirny in due tie-break e perde in due lottati set contro Hewitt.
Il sorteggio però non è buono. Nel suo spicchio di tabellone le due teste di serie più alte sono Johansson (11) e Ferrero (8), ma è affollato da giocatori pericolosissimi. Il soggiorno londinese di Goran, sembra destinato a durare pochissimo.
SECONDA PARTE
Il torneo inizia e nel primo turno non ci sono sorprese. Neanche Ivanisevic fa nulla di sorprendente. Perché sarà in condizioni precarie, ma il misconosciuto qualificato svedese Fredrik Jonsson non può rappresentare un problema. Triplice 6-4 e via al secondo turno.
Il secondo turno è brutto. C’è Carlos Moyà, testa di serie numero 22. Il maiorchino, numero 1 del mondo nel ’99, sta giocando una discreta stagione dopo un periodo di appannamento. Sul cemento è forte, ma sull’erba, quell’erba, no, meglio lasciar perdere. Infatti a Church Road non si è mai spinto oltre il 2° turno. Nel primo di quell’anno, aveva dovuto addirittura recuperare 2 set di svantaggio al qualificato sudafricano Neville Godwin.
Contro Ivanisevic inizia bene però Moyà, che sul leggendario campo 18, si prende il primo set al tie-break per 8-6. Ma Goran c’è. La spalla malandata, quella distrutta, quella che non lo fa più giocare, quella da operare, da quel giorno guarisce, miracolosamente. E la spalla, quella spalla, comincia a sparare ace e non si ferma più. Goran al servizio diventa totalmente ingiocabile. In quel Wimbledon Goran farà essenzialmente tre cose che si ripeteranno partita dopo partita, come dei rituali: 1) ace, una valanga 2) guardare il cielo, pregando Dio 3) sistemarsi continuamente, in un tic compulsivo e insensato, i calzini.
Nella partita contro Moyà, contro cui aveva perso nettamente a Miami pochi mesi prima, fa tutte queste cose insieme. Ace (34), guarda il cielo pregando Dio, e si sistema i calzini. E vince 6-7(6) 6-3 6-4 6-4.
Intanto, tutti i colleghi di wild card di Ivanisevic, sono già tutti a casa. Compreso il fenomeno annunciato, Kristian Pless eliminato da Kiefer e poi sparito totalmente dai radar, tanto che l’highlight della sua carriera sarà togliere un set a Federer nel 2007 a Dubai.
Terzo turno. Altro avversario ostico. Un giovane americano, che sembra un po’ un incrocio fra Sampras e Agassi. Serve delle bombe, spacca col diritto, ma preferisce giocare da fondo e in conferenza stampa ha sempre la battuta pronta. Di quel 19enne dall’aria strafottente e dal cappellino portato con la visiera all’indietro se ne dice un gran bene. E lo sa anche Thomas Johansson, testa di serie numero 11, spazzato via dalla potenza di Andy Roddick.
Andy è forte, è un fighter, è già numero 33 del mondo, ma è ancora inesperto. E sull’erba, quando si gioca servizio su servizio, contro Goran Ivanisevic c’è poco da fare e molto da imparare.
Il croato si prende il primo set al tie-break, il secondo per 7-5, cede il terzo per 6-3, ma nel momento fatidico, sul 4-3 nel quarto set, Andy si scioglie. Sbaglia un rovescio elementare, fa doppio fallo sulla palla break e manda Goran a servire per il match. Un game che riassume tutto Goran: punto di Roddick – ace – servizio vincente – ace – doppio fallo sul primo match point – errore di rovescio sul secondo match point – errore gratuito – ace su palla break con annessa protesta di Roddick – ace – servizio vincente. Game, set & match Ivanisevic. Che per esultare, si toglie l’elegante polo con fregi blu della Sergio Tacchini e la butta al pubblico rimanendo a petto nudo e mostrando orgoglioso il tatuaggio sulla schiena. Roddick, quasi sentendo una premonizione, al momento della stretta di mano, gli dice: “Sono felice per te”. Anche Andy a Wimbledon avrà una storia simile a quella di Ivanisevic, ma purtroppo non avrà lo stesso lieto fine.
Goran esulta, scatenato, ci spera per davvero. Certo, che ci spera, quello è pazzo. No, no, Goran non è pazzo. Goran è lucido. Goran non spera. Goran ci crede. E fa bene, anche se al 4° turno c’è un altro avversario difficile. E’ Greg Rusedski.
Strana bestia quella. Un po’ canadese, un po’ tedesco, un po’ ucraino e un po’ britannico. Infatti, dopo aver iniziato la carriera sotto la foglia d’acero, Rusedski nel ’95 ha scelto la terra d’Albione, patria d’origine della madre. Non certo un britannico purosangue, non un campione e neanche un maestro di eleganza. Ma sono tempi di magra per gli inglesi e quindi va bene anche questo mazzolatore dal cognome impronunciabile. E poi stiamo sempre parlando di un ex numero 4 del mondo e finalista agli Us Open 1997. Nel turno precedente ha pure distrutto Juan Carlos Ferrero, testa di serie numero 8.
Partita difficile dunque? Macché. Ace, sguardi al cielo, calzini. Goran vince il primo set al tie-break e sfrutta le uniche due palle break nei restanti set, non concedendone nessuna all’avversario. Scaglia 22 ace e in 88 minuti è 7-6(5) 6-4 6-4.
Goran non spera, lui ci crede. Anche perché nel frattempo, su un altro campo, è successa una cosa incredibile. La storia del tennis ha bussato ai cancelli dell’All England Club.
TERZA PARTE
E’ successo che Pete Sampras, il campione in carica, vincitore di 7 delle ultime 8 edizioni a Wimbledon e il giocatore più forte di sempre sull’erba, nel primo turno ha battuto Clavet, nel secondo Cowan e nel terzo Sargsian. E’ successo che nel suo spicchio di tabellone, il destino ha posizionato la testa di serie numero 15, Roger Federer, che ha battuto Rochus, Malisse e Bjorkman.
Si parla molto di questo ragazzotto svizzero dalla coda di cavallo e dal tennis classico e offensivo. Sembra proprio una copia di Sampras, meno esplosivo, ma più elegante, meno distaccato e più caldo. Il suo talento è sotto gli occhi di tutti, ma non ha ancora imparato ad imbrigliarlo. Questa sembra proprio l’occasione giusta per dimostrare che il 19enne di Basilea si sta facendo uomo.
La partita potrebbe essere riassunta da una sola parola: perfezione. Mai nella storia del tennis, c’è stata e ci potrà mai essere una tale dimostrazione di tecnica tennistica così perfetta.
Roger, per nulla intimorito dalla situazione, vince il primo set al tie-break per 8 punti a 6. Pete è nervoso, non si sente in controllo, rischia sul suo servizio e sente il pubblico acclamare il nuovo che avanza.
Ma non si diventa Pete Sampras per caso. Resiste, tiene duro, annulla le palle break e si prende il secondo set per 7-5. Federer però non si impressiona e sul 4-4 del terzo, si procura un break point che Pete scialacqua spedendo fuori una comodissima voleé di diritto a campo aperto.
Il quarto si decide al tie-break: Sampras è perfetto, Roger sbaglia una voleé e un rovescio ed è quinto set.
Sul 4-4 del parziale decisivo, Federer annulla due palle break: la prima con una coraggiosissima discesa a rete, la seconda con un diritto vincente.
E allora è sul 6-5 che cambia la storia. Risposta vincente di rovescio di Federer: 0-15. Voleé di diritto lunga di Sampras: 0-30. Servizio vincente: 15-30. Voleé di diritto in rete di Sampras: 15-40. Risposta lungolinea vincente di diritto: game, set & match Federer.
Armageddon nel tabellone. Pete Sampras è fuori. La tirannia del Re dello Swing è finita. E’ il passaggio di consegne, il cambio di testimone, la vecchia generazione soppiantata da quella nuova.
Ma intanto quell’anno, gli 8 quartofinalisti si guardano tra loro e cominciano a sperare davvero. Senza Pete, c’è una chance. Ma ce ne è uno che adesso, non ci spera, non ci crede, è proprio convinto di vincere. Va in conferenza stampa e lo dice: “questo è il mio anno”. Il solito pazzo Goran, sorridono accondiscendenti i giornalisti, che già predicono la vittoria di Federer.
Roger però non si conferma. Nei quarti il Centre Court sospinge Tim Henman, che fa valere l’esperienza vincendo in quattro set con tre tie-break. A fine match Federer darà la mano a Tim senza guardarlo in faccia. Anni dopo il britannico dirà che quello è stato il gesto più antisportivo fatto da Roger in carriera.
Nella parte bassa del tabellone, Pat Rafter, testa di serie numero 3, passeggia contro Enqvist, mentre Agassi, testa di serie numero 2, batte in quattro set Nicolas Escudé, che negli ottavi aveva fatto fuori a sorpresa Lleyton Hewitt.
E Goran? Per Goran ai quarti, c’è Marat Safin. numero 4 del tabellone, che finora non ha certo entusiasmato. Non ama l’erba, lo ha dichiarato a chiare lettere (“L’erba è per le mucche”) e non riesce ad adattarsi. Benché sia perfetto per i campi veloci, Marat sull’erba non riesce ad avere il controllo del gioco, non riesce ad abbassarsi sulle ginocchia e la palla schizza via troppo in fretta per le sue ampie aperture. Ma il 20enne moscovita è in rampa di lancio, e nel 2000, mentre Goran era a casa a curarsi la spalla, vinceva gli Us Open massacrando Sampras in finale.
Il futuro (forse) è suo, ma il presente è tutto di Ivanisevic. Ci vogliono quattro set, due tie-break, 30 ace, un paio di sguardi al cielo e un centinaio di sistemate ai calzini. A fine match si toglie la maglietta, si arrampica sulle sedie e sorride entusiasta. Lui non spera, non crede, lui è convinto. Il pubblico impazzisce per lui. Ma non sarà così per molto, perché in semifinale c’è Tim Henman.
QUARTA PARTE
Tim Henman sarebbe perfetto. E’ un inglese purosangue, nato a Oxford, da una famiglia borghese appassionata di sport. E’ un gentleman, la perfetta sintesi del fair play britannico, un bravo ragazzo la cui vita tennistica è stata tessuta dalle Moire con un solo e unico scopo: vincere Wimbledon. Una missione più che un sogno, una spada di Damocle più che una motivazione, una pressione insostenibile più che la spinta di un popolo. Henman ci prova, lotta, combatte, concentra tutte le sue energie per quelle due uniche maledette settimane dell’anno. Ma non ce la fa. Eppure, sarebbe perfetto. Perché le Moire, hanno tessuto non solo il destino di Tim, ma anche quello di qualcun’ altro. Quel qualcuno è soprattutto Pete Sampras, che l’ha battuto per due semifinali consecutive nel ’98 e nel ’99. “E’ semplicemente un giocatore migliore di me”, dirà con brutale onestà Tim ai giornalisti britannici che cercavano di capire il motivo di queste sconfitte. Nel Millennium Wimbledon, Tim aveva trovato sulla sua strada un altro bombardiere dai colpi esplosivi, Mark Philippoussis, il gigante dalle ginocchia di argilla. Ma quest’anno è diverso. Sampras non c’è e neanche Philippoussis. C’è Ivanisevic. I precedenti sono 4-0 a per Henman, c’è il sole e il Centre Court ribolle di entusiasmo. Dai, che per Tim questa è la volta buona.
E invece il primo set se lo prende Goran, che si inventa tre risposte magistrali sul 6-5, strappando il servizio a Tim nel momento decisivo. Nel secondo è tie-break e la differenza sta tutta in una risposta di diritto di Henman che sorprende Ivanisevic: 8-6, un set pari.
Per Goran è un colpo. Soffre la situazione, finora era stato abituato ad essere il beniamino del pubblico, mentre adesso il Centre Court si spella le mani solo per il suo avversario. Subisce l’entusiasmo di Henman, il servizio si inceppa, sbaglia tutto quando si trova nei pressi della rete ed è impotente in risposta. In una manciata di minuti è 6-0 Henman.
Ecco, il solito Ivanisevic. Sta perdendo la testa, sul più bello sta crollando, non sta reggendo la tensione. Forse le Moire hanno escogitato un altro perfido tranello: fargli credere di poterlo vincere, per poi togliergli tutto ad un passo del traguardo. Forse non è la volta buona di Goran, è la volta buona di Tim.
Forse. O forse no. Perché a forza di dare sguardi al cielo, Goran si è fatto amico qualcuno lassù. E quel qualcuno manda la pioggia a salvarlo. Sul 2-1 Henman e servizio Ivanisevic, comincia a piovere. Partita sospesa, il tetto è ancora lontano.
Tutto rimandato, si ritorna a giocare sabato, cosa che provoca lo smottamento del tradizionale calendario londinese.
Al rientro il croato è più calmo e più lucido, anche se deve soffrire le pene dell’inferno per tenere il servizio sul 4-3. Henman si salva sul 5-5 ed è ancora tie-break: il padrone di casa vola sul 3-1, ma Goran infila 4 punti di seguito. Tim impatta sul 5-5 grazie ad una banale voleé buttata in rete da Ivanisevic. Timbledon è a due punti dalla finale di Wimbledon. Ma Goran tira un ace. 6-5. Serve and volley di Henman, risposta di diritto nei piedi che Tim non riesce a tirare su. E’ quinto set.
Goran è in vantaggio per 3-2, servizio Henman, quando la pioggia torna a far capolino. La fine di questo incredibile match si giocherà di domenica. Si torna in campo e la svolta avviene sul 4-3: Henman sbaglia due voleé di rovescio di seguito e regala due palle break a Goran, che però le spreca entrambe. Sulla parità però Tim forza la seconda e commette doppio fallo. Altro break point: Tim segue la prima a rete, Ivanisevic spara una risposta di diritto al corpo che non torna indietro. E’ break: 5-3 Ivanisevic.
Goran serve per il match: si porta sul 40-30, primo match point. Doppio fallo. Non sarebbe Goran se no. Seconda vincente sulla linea: vantaggio Ivanisevic, secondo match point. Prima esterna che Henman può toccare solo col telaio. E’ finale. La gioia è incontenibile, ma sul Centre Court festeggiano solo lui e il suo angolo, dove spiccano papà Srdjan e Niki Pilic, apripista del tennis jugoslavo negli anni ’70 e indiretto responsabile di un altro incredibile Wimbledon, quello del 1973.
Per Henman, immortalato per sempre nella memoria collettiva con il logo della Mercedes sulla manica della maglietta e con le corde impresse dal felino della Slazenger, è l’ennesima cocentissima delusione. Tornerà in semifinale anche l’anno dopo, annientato dallo stato di grazia di Hewitt.
“Domani sarà il giorno più importante della mia vita – dice Goran a fine match – Non voglio perdere ancora, mi ucciderebbe”. Non certo un modo sereno per vivere una finale Slam. Ma chi ci sarà dall’altra parte della rete? Ci sarà Pat Rafter, che nell’altra spettacolare semifinale (finita regolarmente di venerdì) ha battuto 8-6 al quinto Andre Agassi.
Finale di lunedì. Ivanisevic contro Rafter. Capitolo finale.
QUINTA PARTE
Una finale di lunedì con una wild card. Non era mai successo a Wimbledon. Un partita, un evento eccezionale. E per una partita eccezionale, ci vuole anche un pubblico eccezionale. Chi aveva comprato il biglietto per la finale di domenica, può anche buttarlo. I costosissimi ticket che i borghesi londinesi avevano comprato con mesi di anticipo, sono carta straccia. I biglietti tornano in vendita e i fanatics australiani e gli ultrà croati si sobbarcano anche 24 ore di coda, pur di accaparrarsi quel biglietto, per quella partita storica. Del resto quando potrà mai ricapitare di vedere la finale di Wimbledon dal vivo mentre gioca un tuo connazionale? E il risultato è una meravigliosa bolgia da stadio. Australiani e croati invadono il Tempio del Tennis, creando una cornice sonora impressionante e un patchwork di colori tra canguri, bandiere blu con le stelle e scacchi bianchi e rossi.
Per Rafter è la seconda finale consecutiva. L’anno prima aveva giocato meglio di Sampras, ma quel marpione di Pete era riuscito a girarla a suo favore, vincendo – come sempre – i punti più importanti.
Patrick Michael Rafter arriva a quel match a 29 anni e con già due titoli Slam sulle spalle, gli Us Open del ’97 e ’98. Ha avuto una carriera strana, sbocciata in ritardo e con dei picchi altissimi e dei bassi inspiegabili. Il suo sogno – ovviamente – è quello di vincere Wimbledon. E’ australiano e gioca un serve and volley sopraffino: i Championships fanno parte del suo dna. Eppure fino al ’99 non ci aveva combinato nulla di buono. Poi una semifinale persa da Agassi, una finale persa da Pete e ora la seconda grande chance. Non è vecchio e non è stato certo un ragazzo prodigio, eppure l’australiano non ha più tanta benzina nel serbatoio. Gli infortuni e un serve and volley complicato e dispendioso lo stanno consumando. Questa è sicuramente la sua ultima occasione.
Che sia l’ultima occasione anche per Goran, non ci sono dubbi. Il suo percorso fino alla finale è talmente incredibile quanto irripetibile.
I precedenti sono 2-1 per Rafter, tutti in contesti prestigiosi: al primo giro Ivanisevic aveva vinto proprio a Wimbledon nel ’96, poi Pat aveva vinto agli Us Open del ’98 e a Roma nel ’99.
Quando entrano in campo Goran e Pat sono travolti da un boato impressionante. Il Campo Centrale è per metà croato e per metà australiano. Due paesi, tanto geograficamente lontani, quando emotivamente vicini e non solo per la massiccia emigrazione croata in Oceania. E’ una lotta a chi fa più casino e le già tumultuose emozioni che investono i due giocatori in un contesto così importante sono amplificate del 200%.
E a reagire peggio è Pat Rafter. L’australiano inizia nervoso e perde subito il servizio, che contro Goran sull’erba equivale a perdere il set. E infatti in 29 minuti Ivanisevic si prende il primo parziale per 6-3.
Goran c’è, è il suo anno, è maturo, è pronto. E invece no. Primo game del secondo set: commette due doppi falli e Rafter firma il break con un passante di diritto in corsa che fa esplodere i fanatics che hanno invaso il Center Court.
Il copione si ripete al contrario: Goran annulla un set point sul 2-5, ma nel game successivo Rafter chiude il game a 0 e porta la contesa in parità.
Ivanisevic chiede l’intervento del trainer per la spalla sinistra. Ci vuole un po’ di quella crema magica che fa passare il dolore. E infatti Goran riprende a martellare. Nel terzo set, sul 3-2, si procura due palle break: la prima Rafter la annulla, sulla seconda si butta a rete e lascia andare una risposta di rovescio. E’ fuori è convinto Pat. E invece no. La palla è sulla linea: è break Ivanisevic. Goran tiene il servizio, fino alla fine e con una prima vincente firma il terzo set. 2-1, ad un set dalla vittoria della vita.
Nel quarto set è ancora il sesto gioco a risultare decisivo. Ivanisevic è al servizio, ma sul 40-30 commette un doppio fallo. Poi sbaglia una voleé di rovescio ed è break point per Rafter.. Ma con un ace e una voleé di rovescio è vantaggio interno. Goran però non concretizza e perde due punti di seguito nei pressi della rete.
Secondo break point ed è qui che accade l’imprevisto. Goran tira una prima vincente, ma una voce mai udita prima emerge dalla folla. E’ il giudice di linea: “Foot fault”. Fallo di piede. Goran protesta ma si ricompone, c’è una seconda da giocare. E Goran la gioca da Goran. Tira un missile terra aria sulla riga di mezzo. Ace di seconda. E invece no. L’arbitro la chiama fuori. Doppio fallo, break Rafter. Ivanisevic reagisce da Ivanisevic. E’ incredulo, impazzisce, scaglia a terra la racchetta e la calcia. Protesta col chair umpire, ma ovviamente è una fatica inutile. La frittata è fatta. Il game è andato e anche il set. Goran perde anche il turno di servizio successivo, Rafter chiude per 6-2 ed è quinto set.
Una partita così, una finale così, con un pubblico così, con due giocatori così, poteva solo finire al quinto set.
La lotta dei servizi prosegue. Lo scambio dura sempre pochi secondi. Servizio, risposta, voleé. Non esistono palleggi da fondo, è una lotta all’ultimo sangue alla velocità della luce. Un match così può risolversi in pochi secondi, con un servizio più timido, una voleé scentrata di pochi centimetri o con una risposta fortunata.
Palle break però non se ne vedono. 1-1, 2-2, 3-3, 4-4, 5-5, 6-6, 7-7…che lotta, che battaglia, che emozioni.
A Wimbledon per vedere cinque set in una finale ci voleva Goran Ivanisevic. Nell’ultimo decennio infatti era stato lui il protagonista delle finali più belle. Nel 1992, giovane ma già predestinato a dover vincere sull’erba, crolla al momento fatidico contro Andre Agassi. Sul 4-5 del quinto set, non regge la pressione e regala incredibilmente il primo Slam, a quello strano fenomeno americano, che sull’erba manco ci voleva giocare. Goran se la prende, ma non ne fa una tragedia. Con un gioco così, in finale non può non tornarci. Ci torna nel 1994, c’è ancora un americano, ma è Pete Sampras. Il Re dello Swing vince i primi due set al tie-break, Goran si scioglie nel terzo.
Ma ovviamente Goran non si arrende. Nel 1998 ci riprova. C’è ancora Sampras. Ivanisevic gioca alla grande, forse meglio di Sweet Pete, ma al quinto set, sempre in quel maledetto quinto set, Goran cede e Sampras trionfa.
Tre finali, tre sconfitte, due al quinto set. Avrebbero ammazzato chiunque. Chiunque, ma non Goran Simun Ivanisevic.
7-7. Risposta di diritto vincente sulla seconda di Rafter: 0-15. Voleé di rovescio vincente di Rafter 15-15. Voleé di rovescio fuori di Rafter: 15-30. Risposta vincente di diritto in cross di Ivanisevic: 15-40. Improvvisamente, Goran ha due palle break per andare a servire per vincere Wimbledon. Rafter serve una seconda. E’ una seconda timida, lenta al centro. Ivanisevic prende la mira e spara di diritto. Break, 8-7.
Mancano solo quattro punti.
SESTA PARTE
Noi ci abbiamo messo cinque puntate. Lui ci ha messo tutta la vita. Una vita di sacrifici, allenamenti, viaggi, gioie, dolori, vittorie, sconfitte. Un’avventura iniziata il 13 settembre 1971 a Spalato e nel 1988 nel tennis professionistico. Un’avventura iniziata a Londra nel 2001 grazie ad una wild card, grazie a sei match incredibili e grazie ad altri cinque set travolgenti.
Tutto questo per arrivare a quel game. Quel piccolo, ultimo game. Un game di servizio. Vincere un game di servizio. Serve solo vincere un game di servizio, per sollevare quella coppa dorata con l’ananas sul coperchio. Che ci vuole, Goran ne ha vinti migliaia, milioni nella sua carriera, la maggior parte dei quali con irrisoria facilità. Ma questo non è un game come gli altri. E’ il game più importante della sua vita. E infatti Goran parte male.
Seconda sul rovescio di Rafter che risponde. La palla sta chiaramente finendo in corridoio ma Goran la colpisce comunque e sbaglia. 0-15.
Prima di servizio esterna. Rafter risponde ma la palla si impenna e finisce fuori. 15-15.
Prima in rete. Seconda lunga. Doppio fallo. Goran quasi non si regge in piedi dalla tensione. 15-30.
Prima in rete. Seconda…Ace. Non sarebbe Goran se no. 30-30
Mancano due punti. Due piccoli maledetti punti.
Ace. 40-30. Match point. Goran chiede al ball boy di ridargli quella palla fortunata. Torna indietro, guarda il cielo comincia a pregare, si sistema i calzini.
Manca un punto. Un piccolo maledetto punto.
Prima esterna in corridoio. Seconda lunghissima. Doppio fallo. Non sarebbe Goran se no. Parità.
Prima al centro. Rafter colpisce, ma la palla non raggiunge neanche la rete. Vantaggio Ivanisevic. Secondo match point.
Papà Srdjan è una statua di sale. Niki Pilic non riesce star fermo un momento.
Prima in rete. Seconda pure. Doppio fallo. Parità.
Prima in campo, risposta di rovescio di Rafter, voleé alta incerta di diritto di Ivansevic, Rafter ci arriva, colpisce un rovescio tagliato, la palla fende l’aria e atterra ad un centimetro dalla linea. E’ fuori. Goran si fa il segno della croce e si inginocchia nel punto in cui la palla è rimbalzata. Terzo match point.
Prima esterna in campo, risposta di Rafter, Goran deve quasi inginocchiarsi per raccogliere quella palla nei pressi della rete, la colpisce ed è lì che Rafter, per un breve momento, torna in campo dopo essere stato praticamente spettatore per tutto il game. Si inventa un lob di rovescio appartenente ad un’altra galassia. Il Centre Court esplode. Parità.
Prima lunga. Seconda sul rovescio di Rafter, la palla non torna indietro. Vantaggio Ivanisevic. Quarto match point.
Pilic fa segno a Goran di calmarsi. Calmo? Al quarto match point della finale di Wimbledon? A 29 anni, da wild card, dopo tre finali perse? No, calmo, no. Impossibile.
Non è calmo Goran, ma serve per il quarto match point. Prima esterna in corridoio. Seconda pesante. In centro. Rafter non se la aspetta. Apre di diritto. Ma è in ritardo. Colpisce la palla. Ma quella palla. Quella piccola palla gialla, si ferma in rete.
Goran è già in terra, che piange. Ha vinto Wimbledon.
EPILOGO
“Se vinco, mi ritiro”. Lo ha ripetuto spesso Goran durante quelle due settimane. Una battuta fra le tante. Giocherà ancora, per il solo gusto di farlo. Chiuderà la carriera proprio lì, sempre lì, sui campi di Church Road. Nel 2004, al terzo turno, dopo aver sconfitto Youzhny e rimontato due set a Volandri, che già assaggiava un’altra impresa da tramandare ai posteri. La parola fine la scriverà Lleyton Hewitt, battendolo 6-2 6-3 6-4. Solo Goran poteva chiudere con uno score pazzo come lui: 599 vittorie, 333 sconfitte. Adesso Goran è il coach di Marin Cilic. Lo ha spinto a compiere un’altra impresa sorprendente: vincere gli Us Open 2014. Se si è trattato di una casualità o di una certezza, ce lo dirà solo il tempo. Una certezza però da quel giorno di luglio Goran ce l’ha sempre avuta: “Qualunque cosa farò da adesso in poi nella vita non ha importanza. Sono un campione di Wimbledon”.
Patrick Rafter invece non ce l’ha fatta. Dopo quella finale persa, il 2001 gli riserverà altre dolorissime delusioni. Sconfitto nella finale del Master di Montreal da Pavel, sconfitto nella finale di Cincinnati da Kuerten, sconfitto da Sampras al quarto turno degli Us Open. E soprattutto, Australia sconfitta in finale di Coppa Davis in casa dalla Francia.
Troppe ferite, troppi infortuni, Pat dice basta e saluta. Forse si era reso conto che il suo tennis stava invecchiando più in fretta di lui.